Addio a Gastone Moschin, 88 anni, l’indimenticabile architetto Melandri di Amici miei. Della fantastica compagnia del film di Mario Monicelli era l’ultimo sopravvissuto e aveva partecipato nel 2010 alle feste di compleanno per quello che resta uno dei capolavori della commedia all’italiana.
Nato San Giovanni Lupatoto (Verona) l’8 giugno 1929 Moschin se ne va in silenzio in questa sera di fine estate: è
stato un gigante del miglior cinema italiano senza mai curarsi di diventarne un mito. La sua vera vita infatti era sulle tavole del palcoscenico, i suoi interessi erano distanti anni luce dai suoi anti-eroi cinematografici e la sua passione del mestiere gli faceva preferire una parte di contorno perfettamente incisa a un protagonista fuori fuoco. Forse la scelta fu casuale, forse incise il fisico: importante e simpatico come nel sorriso che poteva mutare in ghigno, ma certamente abbastanza normale, ai confini dell’ordinario.
È morto a Terni a due passi dalla sua casa vicino Narni dove si era rifugiato già dagli anni ’90 dando vita, insieme all’ex moglie Marzia Ubaldi e alla figlia Emanuela, a una scuola di recitazione che occupava il suo tempo insieme al centro di ippoterapia con i suoi adorati cavalli. L’attore era stato ricoverato lo scorso 30 agosto a seguito di un peggioramento di una grave cardiopatia cronica e il 31 agosto era stato trasferito dalla Cardiologia all’Unità di terapia intensiva cardiologica dove si è spento questo pomeriggio poco prima delle ore 18.
A Roma, dove era arrivato appena ventenne, si era innamorato del teatro ed ebbe le sue prime opportunità grazie allo Stabile di Genova e poi al Piccolo Teatro di Milano, tra Pirandello e Checov. Approda al cinema per ragioni alimentari nel ’55 con la regia di Anton Giulio Majano («La rivale») e poi sarà ospite fisso dei grandi sceneggiati televisivi dei primi anni ’60. Intanto però, nel 1959, ha una seconda opportunità sul grande schermo e non la spreca, ultimo arruolato nella compagnia dei «Soliti ignoti» con il secondo capitolo della saga con la regia di Nanni Loy.
Il pubblico e i registi si innamorano di lui per la sua capacità mimetica di «nascondersi» dietro i primi attori per poi
spuntare con un memorabile controcanto ironico, la sua arma vincente. Ecco allora in rapida sequenza: «Anni ruggenti» per Luigi Zampa, «La rimpatriata» per Damiani, «La visita» con Pietrangeli, perfino l’epico «Cento cavalieri» con Cottafavi. Capisce presto che i personaggi negativi, un po’ codardi, un po’ marpioni possono dargli spazio per una vasta gamma di tipizzazioni dell’italiano medio ma il suo vero pigmalione sarà Pietro Germi con «Signore e signori» del 1964.
Dalla gavetta teatrale ha imparato l’uso disinvolto degli accenti dialettali con una predilezione per la sua lingua madre, il veneziano di Carlo Goldoni (spesso suo cavallo di battaglia in palcoscenico): il trionfo del capolavoro di Germi è anche il suo.