24 anni fa scompariva il genio di Fellini

Ventiquattro anni fa, moriva a Roma Federico Fellini. Nato a Rimini nel 1920, diciottenne inizia a lavorare come disegnatore di vignette alla “Domenica del Corriere”. Trasferitosi a Roma con la scusa di iscriversi a Giurisprudenza, inizia a frequentare il mondo dell’avanspettacolo e della radio. E in questo ambiente conosce Aldo Fabrizi, Erminio Macario e Marcello Marchesi, iniziando a scrivere copioni. Nel 1943 Federico incontra in radio Giulietta Masina e in quello stesso anno i due si sposano. Il primo film “Lo sceicco bianco” è del 1952, l’ultimo, “La Voce della Luna”, del 1990, in mezzo cinque Oscar, di cui uno alla carriera, e titoli immortali come “Otto e mezzo”, “La dolce vita”, “Amarcord”.

Nell’olimpo dei migliori registi di sempre, al punto che l’aggettivo felliniano ovunque rievoca scene immortali che hanno fatto la storia della settima arte.

Dopo il debutto alla regia con Luci del varietà (1950), impose la sua poetica visione del cinema, proiettando la sua cara realtà di provincia in un universo onirico e indefinito. Da “I vitelloni” (Nastro d’argento come “miglior regista”) del 1953 ad Amarcord (premio Oscar come “miglior film”) del 1973, passando per la La dolce vita e 8½, suo capolavoro assoluto.

Conquistò la Palma d’oro al Festival di Cannes e nel 1985 il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia.

Si spegne a 73 anni, la sua Giulietta lo seguirà 5 mesi dopo. Riposano nel Cimitero di Rimini, insieme al figlio Federichino, morto subito dopo la nascita.

Ci lascia un’eredità cinematografica enorme: “non c’è una fine, non c’è un inizio. Solo l’infinita passione di vivere”

Ecco suoi cinque capolavori

1) I vitelloni (1953)

Secondo film e mezzo realizzato da Fellini (dopo Lo sceicco bianco e la co-regia con Lattuada di Luci del varietà), è il suo primo successo internazionale. Molto autobiografico, ha già molte delle preoccupazioni formali e tematiche che ricorrono in tutta la sua opera. Ci ha consegnato scene indimenticabili, come il gesto dell’ombrello e la pernacchia che Alberto Sordi lancia come sberleffo ai lavoratori lungo la strada. L’attore romano, all’epoca trentatreenne, è uno dei cinque fannulloni protagonisti. Sullo sfondo c’è la Rimini dell’infanzia del regista, anche se la pellicola venne girata sul litorale vicino ad Ostia e il termine “vitelloni” è del dialetto pescarese di allora (sta a significare “nullafacenti”): Ennio Flaiano infatti, che con Fellini scrisse il film, era di Pescara. Affresco scanzonato della vita di provincia, ha lanciato Federico, anche lui trentatreenne, come nuova interessante voce del cinema italiano, con tanto di Leone d’argento a Venezia.

2) Le notti di Cabiria (1957)

Cabiria ha tanta energia e tanta ingenuità entusiasta, anche se la vita non le ha dato molto e il suo luogo di lavoro è la strada. La interpreta Giulietta Masina, dal 1942 unitasi indissolubilmente a Federico, sia nella vita che sul set. Cinematograficamente è la quarta collaborazione tra i due. La prima era stata in Lo sceicco bianco (1952), dove Masina interpretava in una piccolissima parte proprio una prostituta di nome Cabiria. Con una positiva aria di sfida Cabiria deve affrontare tante umiliazioni, ma mai sembra spezzarsi. Anche sul finale, quando tutto sembra perduto, quando la più grande delusione le è stata inflitta e sembra volere solo la morte, su una strada vicino al bosco dove ha rischiato di venire uccisa si muove una comitiva festosa di giovani che cantano e suonano… Cabiria non può che essere attratta da quella sinfonia umana e seguirli tornando ingenuamente a credere nella vita, in quella sorta di circo che è l’esistenza. Una poesia infinita.
Vinse l’Oscar al miglior film straniero nel 1958 e Masina fu premiata per la migliore interpretazione femminile al Festival di Cannes 1957.

3) La dolce vita (1960)

Si può non sapere quale sia la capitale della Finlandia ma non si può non conoscere La dolce vita, uno dei film più celebri di sempre. Iperbole a parte, la pellicola vinse la Palma d’oro a Cannes e l’Oscar per i costumi e fu un successo in tutto il mondo, uno dei più film europei più visti e acclamati. Dopo quindi giorni di proiezioni in sala gli incassi avevano già coperto le spese di produzione, complice anche l’accusa di “scandaloso” mossagli da molti. La Roma di quegli anni è raccontata come una “Babilonia precristiana”, citando il Morandini.
La città è vista nelle sua decadenza e vive attraverso le pagine dei rotocalchi e la vanità del divismo. Qui si muove il giornalista bello e meschino interpretato da un superbo Marcello Mastroianni, indolente e annacquato nelle aspirazioni da quell’esistenza mondana. Le raffigurazioni circensi e allucinate tipiche del cinema di Fellini vennero definite “felliniane” da questo film.

4) 8½ (1963)

Dopo il successo de La Dolce Vita, Fellini si occupa della sfera più autobiografica e intimamente riflessiva con quella che è generalmente considerata la sua opera più bella e personale. Fonte di ispirazione per successivi registi, 8½ è ritenuto il suo capolavoro. Ancora lui, Marcello Mastroianni, è chiamato a interpretare il ruolo più vicino a Fellini, il suo alter ego, il regista Guido Anselmi. Pressato da produttore, moglie e amante, mentre si sforza di finire un film per cui sente perdere ispirazione, il protagonista si immerge in un limbo confuso e sgangherato. La pellicola raccoglie tutto il dramma di un blocco esistenziale, ma lo fa alla maniera “felliniana”, con la memoria che si mescola alla fantasia, alle bugie, al circo del vivere. Un affresco scomposto sul disordine della vita, di grande forza innovativa.
Vinse l’Oscar come miglior film straniero e quello per i costumi.

5) Amarcord (1973)

Nasce da questa perla di Fellini il neologismo “amarcord” oggi comunemente usato nel nostro vocabolario. La parola viene dall’espressione del dialetto romagnolo “a m’arcord”, cioè “io mi ricordo”. E infatti questa pellicola è un rimestare di ricordi, un pezzo di memoria di Fellini caldamente nostalgico. Dolce ma non stucchevole grazie all’uso dell’elemento surreale, racconta una Rimini onirica degli anni fascisti ricostruita a Cinecittà, con tutti i suoi abitanti un po’ particolari. Soggetto e sceneggiatura furono firmati anche dal romagnolo Tonino Guerra. Immancabile l’Oscar come miglior film straniero.

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