Trent’anni fa scompariva il Mito di Cary Grant

Quando Mae West lo vide aggirarsi dietro le quinte, lei diva dal letto facile, prossima alla quarantina, lui neppure trentenne, disse: «Se quell’uomo sa parlare, lo voglio come mio coprotagonista». Entrambi gli intenti furono perseguiti, il dichiarato (professionale, perché girarono insieme Lady Lou) e il sottointeso, carnale. I due divisero set e talamo.
Mae West la sapeva lunga in fatto di uomini, sentiva quando nei paraggi c’erano dosi interessanti di testosterone: il fascino insolente e l’eleganza naturale del giovane attore l’avevano colpita. Chiese come si chiamasse. Le risposero: «Cary Grant».

Da allora (era il 1933) Cary Grant fu Cary Grant, sintetizzato nella frase che Audrey Hepburn, anni dopo, gli rivolge in Sciarada : «Cosa c’è di sbagliato in te? Niente». Variety, il giornale di cinema bibbia per il mondo dello spettacolo, gli ha dedicato un numero speciale con un’unica parola in copertina: «Timeless», senza tempo. Cary Grant fa poltiglia dei rimpiazzi che Hollywood ha cercato di produrre, i Sean Connery, i Burt Reynolds, i George Clooney. Oscura i belloni alla Brad Pitt, i talenti alla Edward Norton, gli eleganti alla Adrien Brody. Attraversa un secolo, 1904-2004, impeccabile come i vestiti che si faceva mandare da Londra abitando a Los Angeles.

Nessuno è riuscito a scalfire la sua immagine di «principe di Hollywood» (Marlene Dietrich), neppure le biografie scandalistiche, post mortem, in cui si parla di presunta bisessualità, sbalzi di umore, attaccamento al denaro, perfezionismo maniacale. «Quando Cary entrava in una stanza, non solo le donne si mettevano in posa, ma gli uomini si aggiustavano la cravatta» raccontava l’attore comico Steve Lawrence.

Dal 1932 al 1966 Cary Grant  ha girati 72 film, alcuni indimenticabili (Sciarada, Susanna, Notorius, Caccia al ladro…), è stato candidato all’Oscar per Ho sognato un angelo (1942) e per Il ribelle (1945). Invano. Glielo diedero alla carriera, nel 1970, quasi a scusarsi per la distrazione precedente, e lui ringraziando disse: «Ho avuto il privilegio di far parte della più gloriosa era di Hollywood».
Ma non è per questo che è immarcescibile, se valesse il ragionamento lo sarebbero anche Gary Cooper, Gregory Peck, Clark Gable.
In più degli altri, Cary Grant aveva fascino levigato ma gibbosità nell’anima. E sullo schermo fu un vantaggio. Gli opposti vennero fuori, gli diedero il passo del grande attore. Caldo, passionale, sciupafemmine, corteggiatore nato e uomo oggetto (amava farsi conquistare); oppure razionale, gelido nel costruire la propria immagine, nell’inventare Cary Grant, avaro. Si dice che l’amico Randolph Scott, col quale visse per anni, fosse suo amante, eppure non si risparmiò in quanto a donne.
Aveva la leggerezza ironica, che gli faceva riempire lo schermo con un’alzata di sopracciglio, quando sfoggiava all’improvviso una faccia da fesso finito lì per sbaglio. Ma aveva anche la pesantezza dell’essere, quel lato oscuro che solo Alfred Hitchcock riuscì a stanare e a portare sullo schermo nei quattro film che girarono insieme.
Cary Grant sarebbe potuto essere il soggetto di un film, a metà fra la commedia e il dramma. Le prime scene erano ambientate in una casa di Bristol, nel 1904, pochi soldi, padre stiratore, mamma secca e ossessiva, e lui, Archibald Alec Leach in culla, osservato a vista dalla genitrice che aveva visto morire il primo figlio, forse per sua negligenza. I primi nove anni di vita di Archie furono «occupati» dalla mamma, maniacale nel curarlo e nel pretendere il meglio da lui. Fredda, esigente, ansiosa, lo portava a passeggio nelle più eleganti vie georgiane per fargli assaggiare una vita più gustosa della loro, misera e claustrofobica. Un giorno Archie, tornando a casa, non trovò più la donna, gli dissero che aveva avuto un infarto, poi che era partita. Per vent’anni non l’avrebbe più rivista: il padre l’aveva fatta internare con la scusa dei nervi fragili. Si era trovato un’altra compagna, più giovane.
Di certo quel distacco forzoso, incomprensibile per un bambino, lasciò dei segni. E altri li lasciarono l’indifferenza e la freddezza con cui negli anni del ricongiungimento la madre trattò il figlio. Fu l’unica donna a cui Cary Grant non piacque mai, feroce nel trovargli segni di imperfezione, inadeguatezza, inutilità.

«Le donne? Sono sempre state il mio problema» diceva fra il serio e il faceto. Non sullo schermo però, dove fece scuola di seduzione ai maschi di allora.
MODELLO PERFETTO DELL’UPPER CLASS

Il bacio di Notorius, più lungo di quanto consentisse il regolamento dell’American Production, è pura passione, più erotico di tante scene di sesso odierne.
Nella realtà Grant fece pazzie da film per l’amata di turno. Le cronache dei giornali rosa parlavano di aerei privati noleggiati per raggiungere la fortunata, di regali faraonici. Sophia Loren, che gli preferì alla fine Carlo Ponti, fu inseguita di hotel in hotel, coperta di fiori. La sposò, ma solo nella finzione in Un marito per Cinzia.

Archie Leach, ragazzino di Bristol, aveva voluto da Cary Grant la stessa vita che il giovane Gatz aveva chiesto a Gatsby (il protagonista del romanzo di Francis Scott Fitzgerald): tutto in grande. Le più belle donne dell’epoca, cinque matrimoni, quattro divorzi, ville, auto, suite d’albergo, milioni di dollari, un guardaroba sconfinato, le major ai suoi piedi per scritturarlo. Dal fatidico Lady Lou con Mae West del 1933, il nome di Cary Grant sulla locandina portava infatti dollari alle case di produzione.
Sapeva calarsi in ruoli di assassino (Sospetto) come in quelli di nipote gabbato (Arsenico e vecchi merletti) o di atletico latin lover (Caccia al ladro con Grace Kelly: «Era la donna più bella che avessi mai conosciuto ed esercitava su di me incredibili effetti extrasensoriali»).
Eppure, la vita di Cary Grant fu un ottovolante emotivo, era spesso insoddisfatto di sé e insofferente a Hollywood. Riuscì a mettere a posto la sua anima più che settantenne, grazie a due donne: la figlia Jennifer, avuta dalla quarta moglie Dyan Cannon, e Barbara Harris, più giovane di lui di 46 anni e ultima sposa. Nella sua vita da film c’è anche lsd che gli fu somministrato dallo psicoanalista durante sedute di sei ore: «Mi faceva sentire più felice e mi dava una forza interiore per dissipare molte delle paure che avevo prima» spiegò poi.

Come spesso accade, invecchiando, Grant migliorò: il suo charme toccò il culmine negli anni di Notorius (1946), Vento di primavera (1947). A quei tempi era per tutti l’«uomo in frac», per l’eleganza morale che si rivelava man mano che Grant diventava più sicuro di sé e seppelliva insicurezze infantili mentre quella dei gesti, del vestire rimaneva inimitabile.
«Se do l’impressione di essere un uomo senza una preoccupazione al mondo, è perché gli uomini che hanno problemi cercano sempre di dare quest’impressione. Siamo tutto l’opposto di ciò che mostriamo d’essere» ammetteva sereno.
Era arrivato al mondo dello spettacolo falsificando, tredicenne, la firma del padre pur di seguire una compagnia di teatranti. Aveva fatto il trapezista, l’acrobata, aveva imparato a camminare sui trampoli, a porgere le battute nel vaudeville, a cantare nei musical. Era bello, alto quasi due metri, aveva gli occhi irriverenti, il sorriso perfetto, una fossetta troppo pronunciata nel mento che il mondo gli invidiò. E belle mani. Ma soprattutto Archibald Alec Leach voleva a tutti i costi essere Cary Grant. Così ignorò il giudizio della Paramount al suo primo provino che lo bocciò per le sue gambe storte e il collo troppo grosso.
Quando era già un divo, selezionò i copioni come una massaia la frutta fresca, evitando il marcio. Dai registi con cui ha lavorato, grandissimi come Josef von Sternberg, Howard Hawks, George Cukor, Frank Capra, Stanley Donen, Hitchcock naturalmente, mutuò sempre qualche sottigliezza, interpretativa, umana.
Puntò a essere Cary Grant, se ne infischiò che all’inizio lo soprannominassero «il canguro» perché il suo inglese sapeva di Australia. Lo corresse, lo personalizzò e anche quello diventò un suo segno distintivo, che insieme agli altri hanno fatto scrivere a Variety, «Timeless», Senza tempo.

Un giorno Alfred Hitchcock ammise che avrebbe voluto essere Cary Grant: «È la vita a darci una parte. Guardatemi. Pensate che avrei scelto di essere così? Io avrei preferito recitare un altro, Cary Grant». Anche John Kennedy reclamò il fascino ironico dell’attore immaginandosi sullo schermo: «È il mio alter ego ideale».
Il paradosso è che lo stesso pensiero attraversò Lucky Luciano, mafioso con smanie d’eleganza. «Ognuno vuole essere Cary Grant. Anch’io» disse il fortunato possessore di quella faccia senza tempo. L’inventore di Cary Grant.

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