Marta Marzotto – Smeraldi a colazione. Le mie sette vite

Qualche mese, prima della scomparsa improvvisa di Marta Marzotto, Cairo editore, ha dato alle stampe, il memoir appassionato e appassionante della contenssa Marzotto. Sorridente, solare e ubiqua con i suoi caftani da gran sera e le collane esagerate, Marta Marzotto, per sua stessa definizione “nata libera”, è  stata una donna esuberante, incontenibile, che ha vissuto una vita a tinte forti, anzi, sette vite.

Giovane e bella da fermare il cuore, dalla miseria delle risaie di Mortara si è ritrovata, negli anni Cinquanta, a sfilare sulle passerelle delle più importanti case di moda. E, come Cenerentola, viene notata dal rampollo di una nobile famiglia di imprenditori veneti, i Marzotto, che si innamora perdutamente di lei. Ma questo non è l’happy end di una favola, è solo l’inizio. In quindici anni dalla coppia più invidiata d’Italia nascono cinque figli, e la regina di Palazzo Stucky organizza cene, cacce, ritrovi con banchieri, magnati e teste coronate, anche se la gabbia dorata della provincia comincia ad andarle stretta. Sta per iniziare la sua nuova vita, quella della Roma mondana, così meticcia e così speciale, in cui il suo salotto di piazza di Spagna diventa il centro pulsante della vita culturale, politica e imprenditoriale italiana. Ma il vero cuore di queste memorie è l’intensità del legame con Renato Guttuso, un amore che condizionerà per vent’anni l’arte di uno e la vita di entrambi. Lui la dipinge ovunque, le scrive cinque lettere al giorno. Lei lo trascina con la sua vitalità contagiosa in una seconda giovinezza. Poi, un giorno di gennaio di trent’anni fa, l’incantesimo si spezza e tutto cambia. La fine del grande pittore si tinge di mistero e a pagarne il prezzo più alto è proprio lei, la sua musa.

Gli anni Ottanta fecero da scenario alla fine di una delle storie d’amore più chiacchierate dell’Italia, quella tra la contessa Marta Marzotto e il pittore Renato Guttuso.

Si conobbero a casa di un comune amico, il giornalista Rolly Marchi a Milano. Era il 1960. Marta Marzotto, che quella sera era in  incognito e portava per gioco una parrucca cortissima di riccioli biondi, e Renato Guttuso, la contessa mondina e il pictor optimus, si sarebbero rincontratati e innamorati, soltanto sette anni più tardi, a Roma.

A condurre la Marzotto,  a Palazzo del Grillo, residenza del pittore ufficiale del PCI, fu il regista Valerio Zurlino. Guttuso rimase incantato di fronte alla bionda contessa, alla donna tracimante vitalità e vitalismo che per vent’anni sarebbe stata la sua amante e la sua musa inquieta.

La passione incominciò a divampare, all’inizio per via epistolare, fermo posta a un indirizzo di Orbetello. Lei aveva 35 anni, lui venti di più. “Marta è l’archetipo di donna che ho sempre sognato, l’immagine vivente del mio etermo femminino”, ripeteva agli amici Guttuso. “Io devo essergli piaciuta per questa mia aura da dea Kalì, perché ero allumeuse, molto aperta, cordiale, solare, e forse, chissà, anche perché mi chiamo Marzotto, che,  specie a sinistra, non  guasta.

Lui, era un uomo bellissimo, un mito, però era un po’ trombone, viveva da vecchio signore arrivato. Io gli ho dato una sferzata, non soltanto nella pittura (…).

All’inizio, quando l’amore era ancora solo platonico, lui le scriveva fino a quattro o cinque lettere al giorno e le telefonava non appena la moglie Mimise usciva di casa. “Sono stata amata più di quanto io non abbia mai amato – racconta oggi la contessa. – La cosa che più mi manca di più, adesso, è proprio la grandezza del suo amore. Amavo essere tanto amata. Di un amore vero, commovente e imbarazzante perché era veramente troppo.”

Il loro primo nido d’amore fu la casa in piazza di Spagna del gallerista Romeo Toninelli. “Era la prima volta che tradivo Umberto: dopo quindici di matrimonio e cinque figli. C’era un grande trasporto tra noi, ma ci bastava anche soltanto guardarci negli occhi, tenerci la mano sognare…Era una cosa che coinvolgeva il cuore ma anche il cervello, perché tutto nasce  da lì”.

In qualità di modella Marta Marzotto si presentava in atelier tutte le mattine, andandosene pochi minuti prima che la signora Guttuso tornasse dalle sue commissioni. E poi ricompariva al pomeriggio: orario spezzato. Per la sua Marta, Guttuso  disegnò ovunque: sui muri delle sue ville di grande ricca, sulle mattonelle dei bagni, sui paralumi, sulle tovaglie, sulle cartoline, e dipinse centinaia di quadri, dove lei era nuda, discinta mentre tagliava le unghie a un leone, vestita, dormiente, al telefono, ai piedi della croce, riflessa in uno specchio, in giarrettiere e calze a rete. “Forse ti ho compromesso, però sono l’uomo che ti ha amato di più”, le ripeteva Guttuso.

“Tra di noi, ricorda la Marzotto, c’era un accordo preciso: il nostro privato non si tocca. Lui aveva il suo e io il mio, anche se ogni tanto veniva a frugare nella mia vita e si infuriava. La sua invece era un tabù. Addiceva motivi di coscienza” .

Non a caso lui decise di non vedere più la sua nuvola d’oro, dal giorno in cui morì la moglie, nell’ottobre dll’86. Lui, malato di cancro ai polmoni, spirò tre mesi più tardi, il 18 gennaio dell’87.

In quell’agonia la contessa trovò sempre il portone di Palazzo del Grillo sbarrato: “Non c’era posto per me, doveva morire in odore di santità e senza l’amante. Figurarsi: lui che fino al giorno prima era ateo”.

Di quei tre mesi in cui venne trattata come se avesse la lebbra Antonello Trombadori fece questo ritratto: “Roma è quella città dove una mondina diventata contessa può telefonare a un monsignore amico del Papa, perché gli faccia riabbracciare il suo ex amante pittore comunista”.

Quando Guttuso morì le lo seppe dal marito, che aveva appena sentito la notizia alla radio.

A Lietta Tornabuoni avrebbe poi confessato: “Non li perdonerò mai di avermi fatto  sentire alla radio  che Guttuso era morto. Gli avevo giurato che non l’avrei lasciato solo, che gli avrei stretto la fine fino all’ultimo(…) Mi hanno cancellato, tenuto lontana come un ‘appestata”.

Oggi, tanti anni più tardi, confessa di avere un solo rimpianto: “Non avergli detto a muso duro che stava morendo, perché forse sarebbe morto da uomo e non da debole”.

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