Diciannove anni fa, a Parigi, scompariva Lady Diana

Sembra ieri ma sono già passati 19 anni da quel 31 agosto 1997, notte in cui Lady Diana e Dodi Al-Fayed persero la vita sotto il ponte dell’Alma, a Parigi.
Mai Principessa del passato, continua ad essere  così compianta ancora oggi! Le tiene testa solo Grace Kelly, altra principessa glamour, aggiungerei triste, scomparsa tragicamente, come Lady D, in un incidente stradale.

“Un assurdo inseguimento di fine millennio. Due personaggi a bordo di una macchina e dietro sette fotografi che cercano di non perdere le tracce della principessa e dell’egiziano suo accompagnatore. Uno schianto, la morte e una grande desolazione dinanzi a questa corrida, incivile come tutte le corride…” .
Nell’agosto del 1997, si concludeva la storia di una delle persone più perseguitate, un personaggio ufficiale, sempre esposto alla curiosità di un mondo avido di sapere e di trovare la notizia
“sbattuta” in prima pagina, un mondo che si identificava in lei alimentandone la leggenda, nonostante fosse ancora viva.
Qualcuno ha parlato di delitto. Un delitto operato dalla stampa.
Non a caso l’Unità titolava in prima pagina: “Scusaci principessa, questo è uno dei tanti delitti commessi a mezzo stampa, quando accade che i diritti della persona umana, celebre o sconosciuta, vengono buttati in aria in nome di un superiore diritto di cronaca”.

La favola ebbe iniziò il 29 luglio del 1981.

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Nella cattedrale di St. Paul, a Londra, si celebrarono le nozze più guardate del secolo, quelle di Diana Spencer e del principe Carlo d’Inghilterra.
“La fiaba, come avrebbe poi dichiarato la nuova principessa triste, “era solo melassa mediatica”: quel matrimonio in mondovisione così scenografico e insieme romantico, il cocchio d’oro e di cristallo trainato dai cavalli bianchi, il volo dei colombi, la sposa fanciulla nel suo vaporoso abito da principessa e il futuro re, in alta uniforme da ammiraglio, nascondevano intrighi di corte, passioni malsane, tradimenti annunciati.
Tutti sapevano e tutti tacevano. Il matrimonio del secolo avrebbe portato alla corona un’enorme surplus di popolarità. E questo bastava.
Diana, nella sua personale ricostruzione dei fatti, ricordò quella giornata come un incubo: “Ero calma, mortalmente calma. Mi sentivo come un agnello condotto al massacro.”
La fiaba era già finita: non sull’altare, ma ancor prima delle nozze.
Dietro l’apparente solidità della nuova “costruzione familiare”, c’erano già preoccupanti crepe, che agli intimi della coppia sembravano vistose, ma che dall’esterno erano invece invisibili. La crepa più vistosa, quella destinata più di ogni altra cosa a minare l’unione, aveva nome e cognomi: Camilla Shand, maritata, Parker Bowles, amante storica del principe di Galles da quando i due avevano ventitré anni.
La vergine fidanzata del principe, s’era illusa che lui, sposandosi, avrebbe troncato di netto con il passato, e in particolare con un passato chiamato Camilla. Ignorava, fino a pochi giorni prima delle nozze, che Camilla non era il passato, bensì il suo presente.
Lo scoprì in un modo banale e sconvolgente, quasi una scena di piéce teatrale: aprendo un pacchettino regale con mani tremanti di emozione per l’affettuoso pensiero del promesso sposo. Dentro il pacchetto c’era uno splendido braccialetto di oro massiccio, con una “F” e una “G” intrecciate come in un abbraccio. “F” come Fred, “G” come Gladys: i nomignoli che Carlo e Camilla s’erano dati come amanti, e dei quali Diana era venuta da poco a conoscenza da quando poche settimane prima Camilla s’era ammalata e il principe le aveva mandato una gigantesca corbeille di fiori, con la semplice dedica “Da Fred a Gladys”.

Quel 29 luglio 1981 la donna più invidiata del mondo, futura regina, aveva dunque salito i gradini dell’altare maggiore di San Paolo, soltanto perché non se l’era sentita di tirarsi indietro con un voltafaccia clamoroso davanti agli occhi sgranati del mondo intero? Questa era mezza verità: l’altra mezza era la convinzione di Diana che la forza del suo amore – avrebbe avuto la meglio, relegando per sempre “l’altra” ai margini, se non fuori del tutto, rispetto alla vita del principe.

Il futuro di Diana, destinata a conoscere la felicità soltanto in brevi e spesso convulse fasi della sua esistenza, era stato tracciato: con un patto scellerato tra il futuro marito e l’eterna amante di lui.
Diana, non poteva sapere, e lo scoprirà molti anni dopo, forse addirittura leggendo i giornali, che era stata, proprio la sua rivale, a scegliere lei come “vergine per il principe”, sicura com’era che Diana glielo avrebbe portato via, soltanto agli occhi del mondo. Si, era stata lei a suggerire al principe ereditario che sarebbe stato “altamente consigliabile” per tutte due il matrimonio con “quella lì”: giovane inesperta, quindi plasmabile, e presubilmente pronta a rassegnarsi a una situazione a metà tra il dramma e la pochade, in nome della ragion di Stato e di qualche tornaconto personale di non modesta entità, come la prospettiva del trono d’Inghilterra.
Il giorno delle nozze, con gli evviva della folla, le salve di cannone, i 750 milioni di telespettatori, il bacio in mondovisione, il ronzio delle macchine fotografiche, l’interminabile banchetto nuziale, i brindisi, volse al termine. “Il tempo era immobile, sembrava non passare mai. (…) Nessuno dei due parlò, eravamo a pezzi. Non vedevo l’ora che finisse”.

Al termine del viaggio di nozze, sembrava già tutto compromesso: Carlo, che aveva 33 anni le appariva inane, schiacciato dai genitori: “Era in soggezione davanti alla madre, intimidito dal padre, ed io venivo sempre dopo tutti”; la bulimia di lei, la depressione post partum, le crisi di pianto, la solitudine, il sentirsi “giocattolo dei media” furono tutti elementi che trasformarono la fiaba in un inferno. Quella stessa fiaba che di fiabesco ebbe poco, se non le iniziali illusioni di un’ingenua “fanciulla in fiore” che aveva creduto sul serio di avere incontrato il principe azzurro.
La nascita del secondogenito, la delusione di Carlo perché si trattava di un maschio, decretarono la fine della loro intimità. Non essere mai più toccata dal marito – lei così bella, neppure sfiorata – una volta espletati i doveri dinastici e aver dato una successione, anzi due al trono, le provocò dei seri disturbi di autolesionismo.
Se fra le quattro mura di casa, o del castello, si consumava il dramma, sulla scena pubblica, Diana, rifulgeva come una star assoluta, mettendo in ombra ogni giorno di più il marito incolore, rubandogli la scena e trasformandolo in un grigio comprimario. In ogni angolo del mondo le folle acclamavano solo lei e soltanto lei.

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Man mano che passarono gli anni, Diana diventò un’icona dello stile nel suo pieno splendore. Era la celebrity più fotografata del pianeta: una sua immagine sulla copertina di una rivista faceva lievitare le vendite anche del trenta per cento. Non solo la Diana vestita da gran sera che volteggiava alla Casa Bianca fra le braccia di John Travolta, o che incantava il galante Mitterand al banchetto di Stato offerto in suo onore. Ma anche la Diana caritatevole che confortava gli ammalati, visitava i lebbrosi, accarezzava i bambini con l’Aids: e lo faceva come se veramente le importasse qualcosa, non per dovere di rango, non perché la beneficenza era l’occupazione che più si addiceva a una principessa, ma per vocazione sincera. Le sue lacrime erano lacrime vere. L’impatto sull’opinione pubblica fu enorme, l’innamoramento divenne collettivo, e quando nell’89 Diana, era ancora una volta a New York dove visitava i senzatetto e i bambini sieropositivi in agonia all’ospedale di Harlem, i giornali, estasiati, la definirono in prima pagina “bigger than Gorby, better than Busch”.
Quando cominciarono a trapelare indiscrezioni sul suo non felice matrimonio, fu come se la principessa si conquistasse una nuova medaglia sul campo: il fallimento coniugale la faceva apparire ancora più umana, più vulnerabile, più vicina alla gente comune.

La verità era che Diana aveva un amante. Più che una vendetta a sangue freddo, o una ripicca, il suo era bisogno di conforto. Cervava una spalla su cui piangere. Si era scelta un maggiore della cavalleria, un aitante giocatore di polo di origini modeste ma molto ambizioso, James Hewitt. Il primo incontro ravvicinato avvenne temeriamente nell’appartamento coniugale di Carlo e Diana a Kensington Palace. Dopo sette anni di matrimonio, un matrimonio fallito ancora prima di cominciare, tradita e frustrata da un marito che non aveva mai smesso di frequentare la sua amante storica, nonostante le promesse fatte al padre Filippo, Diana si abbandonò a questa passione a titolo di risarcimento, con ardore, lasciandosene coinvolgere e travolgere senza prudenza e senza calcolo.
Alla fine di un legame incandescente durato fra alti e bassi tre anni, James Hewitt, non si fece scrupolo di vendere l’esclusiva dei suoi amplessi a un grande tabloid, che per quel torrido memoriale lo coprì d’oro.
Il matrimonio del secolo si rivelava una catastrofe. La separazione ufficiale venne annunciata dal Primo Ministro John Major il 9 dicembre del 1992. Di fatto esisteva già da molti mesi.
Il 1992 fu definito dalla regina, già duramente messa alla prova dal boccaccesco adulterio a bordo piscina della nuora Sarah Fegurson, il suo annus horribilis.
Fu horribilis anche per Carlo, che subì due colpi molto pesanti. Il primo fu la pubblicazione del libro di Andrew Morton, Diana la sua vera storia, che ebbe un effetto dirompente tra i sudditi sbigottiti e ignari, suscitando uno scalpore senza precedenti fra chi – animi semplici – si ostinava a credere ancora nell’idillio. Il libro andò letteralmente a ruba e generò un’immediata onda di simpatia a favore della principessa, che parlava alla nazione per interposto biografo.
Carlo annaspò. Era in arrivo un altro colpo, che rischiò di seppellirlo nel ridicolo, e dunque di fargli ancora più male. Era la rovente intercettazione di una telefonata lunga sei minuti fra lui e la sempreverde Camilla: l’erede al trono venne ribattezzato “l’uomo che voleva farsi Tampax” per avere annunciato all’amata, il suo sogno romantico-pulp di potersi reincarnare in un assorbente, in modo da esserle più vicino. Le polemiche del Camillagate rasentarono l’impeachment.

Da single, la principessa apparve ancora più bella, padrona della propria femminilità. La stampa rosa che la assediava e la spiava le attribuì una girandola di flirt non sempre veritieri.
Mentre Diana era ormai carne da cannone per la stampa scandalistica, Carlo tentò la propria riabilitazione in due mosse. E nella speranza di riguadagnare popolarità e riacciuffare i consensi perduti, scelse di raccontare la verità. Selezionò un giornalista di fiducia e autorizzò la pubblicazione della sua biografia autorizzata, facendola precedere da un’intervista televisiva in onda sulla BBC.
L’intera operazione mediatica si rivelò a doppio taglio: il principe ne uscì ancor una volta come un uomo debole e imbelle, senza carattere, vessato dai genitori, costretto a sposarsi contro la sua volontà, prigioniero di un amore claustrofobico. “Non ho mai amato Diana. L’ ho sposata perché mi ha obbligato mio padre”.
Anche Diana, da lì a poco decise che era arrivato il suo turno, di parlare col cuore all’intera nazione.
Nulla fu lasciato all’improvvisazione in quella che si rivelò l’intervista più seguita nella storia della televisione britannica. Diana diventò una star multimediale: tutto nelle sue apparizioni e nelle sue esternazioni era calcolato. Il 20 dicembre 1995, in prima serata, Diana si offrì all’immensa platea catodica. L’intervista durò 55 minuti di straordinario impatto visivo ed emozionale: il meglio di oltre cinque ore di registrazione, in cui fece tremare la Corona più di una bomba dell’Ira.
Raccontò di essersi sentita “uno zero, ero come un cestino di carta stracciata”. Parlò della depressione post partum, della bulimia, sua “valvola di sfogo”, dell’etichetta di instabilità, immaturità, fragilità psichica che le avevano appiccato addosso, della sua sovraesposizione pubblica, delle sue lacrime, della sua sofferenza.
Adesso il divorzio era inevitabile. L’intervista suscitò uno stupore enorme. Per un lunghissimo attimo tutti trattennero il respiro, in un clima da crisi istituzionale che venne paragonato, per gravità, a quello in cui Edoardo VIII precipitò il Paese nel dicembre del ’36, quando gettò alle ortiche lo scettro per amore di una donna divorziata due volte.
Per la Principessa del Galles, avrebbe potuto essere il suicidio: invece era l’inizio della sua beatificazione. Formidabile performance, la sua, da abilissima comunicatrice.
Si era ribellata alle ipocrisie e al conformismo di corte, era andata in televisione, e aveva parlato al cuore della gente. In 55 minuti aveva fatto invecchiare la monarchia inglese di secoli e senza un insulto aveva lasciato che l’intero clan dei Windosr apparisse perfido e obsoleto.
Perseguitata dall’attenzione ossessiva dei media, Diana si confermò al tempo stesso sempre più abile nel manipolarlo. Intanto le negoziazioni relative al divorzio continuavano. Quando finalmente i negoziati si sbloccarono la principessa si vide negare il titolo di altezza reale. Un gesto voluto da Elisabetta, che l’opinione pubblica giudicò meschino e vendicativo. Ma Diana da lunghi mesi cingeva ormai un altro tipo di corona, quella di regina dei cuori della gente.

Finalmente era libera e l’estate del ’97, fu l’anno di tutte le sue follie. Ad agosto esplose pubblicamente il flirt estivo con Emad Al Fayed, detto Dodi.
Più che un produttore cinematografico, con i quattro Oscar per Momenti di gloria, a 41 anni, Dodi, era soprattutto un playboy in servizio permanente effettivo.
Incominciò l’estate più schizofrenica della principessa, quella che l’avrebbe portata alla morte. A Parigi si consumò il suo ultimo inseguimento: una caccia mortale.
Erano passati ventiquattro minuti dopo la mezzanotte quando la Mercedes, imboccato il tunnel di Place de l’Alma, sulla riva nord della Senna, si andò a schiantare contro il tredicesimo pilone di cemento armato. L’urlo, il boato, l’auto che si accartocciò e si schiacciò in una nuvola di fumo, il fragore “come se fosse scoppiata una bomba”, raccontarono i testimoni. Nel silenzio irreale che seguì, l’unico rumore fu il crepitare dei flash, come sventagliate di mitra, ancora prima che venisse chiamata l’ambulanza.
L’autista e Dodi, morirono sul colpo. Lei, la principessa della gente, morì quattro ore dopo.
“La fragile farfalla che aveva cambiato per sempre la vita degli inglesi” (così l’aveva definita una giornalista del Daily Express), era passata a miglior vita fra lo stupore e l’incredulità dei quel mondo che l’aveva da sempre rincorsa.
“La tua candela si è spenta molto prima della tua leggenda” , cantò un emozionato Elton John nell’abbazia di Westiminster, durante i suoi funerali di Stato, salutando l’ultima principessa delle favole moderne, a cui nessuno crederà più.

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