Marco Masini: «Mai più vaffanc**lo»

Che Marco Masini non fosse più un ragazzo «disperato» lo avevamo capito già da un po’. Di album in album, di Sanremo in Sanremo (l’ultimo a febbraio, dove si è classificato tredicesimo con Spostato di un secondo), quel ragazzo un po’ goffo e insicuro si è trasformato con gli anni in un uomo solido e risoluto, che ci tiene proprio a dare questa immagine di sé (anche nel look). Ma senza rinnegare il passato: «Quello che sono adesso è figlio del mio vissuto, non solo musicale ma anche esistenziale e sociale. È solo attraverso i conflitti, le soddisfazioni, i risultati positivi e quelli no, che si arriva a essere quello che sei», ci dice subito. Lo incontriamo negli studi della Sony a Milano, tra una tappa e l’altra dell’instore tour che lo vede impegnato nella promozione del disco Spostato di un secondo (uscito nei giorni del festival), e in vista del tour nei teatri che partirà il 25 aprile da Città di Castello, PG (date e info qui).

Marco, torniamo brevemente all’esperienza di Sanremo: le è dispiaciuto essere arrivato un po’ in fondo alla classifica?
«Arrivare primo è sempre meglio che arrivare ultimo, certo: io sono finito nel mezzo e un po’ lo aspettavo, l’avevo messo in preventivo. Un certo tipo di giuria mi ha dato un voto buono, la popolare mi ha penalizzato, forse perché si aspettava una canzone diversa da me. Ma Spostato di un secondo è una canzone che bisogna ascoltare, infatti la soddisfazione è venuta dopo: entrando in airplay la gente la sta cominciando a capirla. Non è un pezzo da Festival ma io già lo sapevo, lo dissi anche a Carlo (Conti, ndr)».
Perché ha voluto fare il «kamikaze», scusi?
«Quando sei giovane puoi andare lì per cercare la tua vetrina e farti conoscere. A me, dopo ventisette anni di musica, interessa solo raccontarmi: e se questo è quello che sono oggi è giusto che mi racconti così, non che costruisca qualcosa per arrivare primo, secondo… Sono contento che Signor Tenente abbia riscosso gradimento perché era il rischio più grande, anche se calcolato».
Tornando a Spostato di un secondo, mi dice perché è così tanto parlato? Ho notato che molti suoi colleghi hanno portato al festival brani «verbosi», quest’anno. Quasi volessero strizzare tutti l’orecchio all’hip hop.
«La sintesi del rap e della metrica stretta a me piace, ma già da un po’ di tempo. Sono sempre stato influenzato da ciò che ascolto, dagli anni ’70 fino ai Coldplay e Bruno Mars. Tutto è musica e tutto fa parte della nostra colonna sonora: noi musicisti non sentiamo la musica solo per dovere musicale, ma anche per necessità di vita. Spesso la usiamo per consolare il nostro animo, come tutti».
E lei, quando vuole tirarsi su, che musica ascolta?
«Le sembrerà strano, ma molta techno. Soprattutto quando devo star sveglio, mi devo caricare, devo salire sul palco. E poi adoro Viva la vida dei Coldplay, che per me rimane la canzone più bella uscita in questi ultimi dieci anni. Nella sua semplicità ti dà senso del rischio, del coraggio, dell’innovazione. Sia a livello di produzione sia di testo».
Al festival ha parlato del suo «secondo spostato» in riferimento alla morte di sua madre, a quell’ultimo attimo perso. C’è invece un secondo arrivato al momento giusto? La «sliding door» migliore della sua vita?
«Sicuramente l’incontro con Bigazzi (Giancarlo, storico produttore musicale e paroliere fiorentino, ndr), avvenuto per caso. Un mio amico voleva cantare e io avevo un pezzo pronto per lui. Ma quando lo incontrò, Bigazzi disse: “Te canti male ma chi ha scritto questo pezzo è bravo”».

Mi parla un po’ di questo cambio di look? Segue l’esempio di Michael Stipe dei Rem?
«Due anni fa avevo già la barba, ma più corta. Diciamo che questa è l’estremizzazione del look di prima: mi sono appassionato a questa moderata anarchia dell’hipster, ma anche al senso dell’ordine, della pulizia. Che ti dà anche un capello più pettinato, una barba più lunga ma comunque curata».
Questo «prendersi cura» le piace?
«Mi sento più uomo e mi sento anche più libero: non temo di sfoggiare un certo tipo di eleganza, per paura di rischiare la critica. Sa quanti mi dicono che sembro un paninaro?».
Il tempo che cosa le ha insegnato?
«Che bisogna sempre essere pronti, per agganciare le sliding doors che dicevamo prima. E freddi».
In che senso?
«Io sono sempre stato freddo. Perché ho vissuto una carriera molto difficile. Ma a differenza di molti colleghi che si sono persi per strada non ho avuto la smania di accusare qualcun altro dell’insuccesso. Il tuo percorso lo crei tu, sei tu che decidi quello che gli altri devono dire o non dire di te. Quello che tu trasmetti è quello che la gente recepisce: la freddezza sta nel cogliere l’occasione importante ogni giorno».
Così non si toglie spazio all’emozione, però?
«Infatti. Il nostro lavoro consiste proprio nel regalare emozione, e l’emozione non è certo freddezza, quindi bisogna essere bravi a trovare un equilibrio tra le due cose».
Nonostante tutta questa «pulizia», confessi: le è rimasto un vaffanculo nel cassetto?
«No, perché oggi ce ne sono fin troppi, anche gratuiti. Io credo che non abbiamo più bisogno di “vaffanculo” ma anzi di un grande senso di responsabilità collettivo e soprattutto di verità. Oggi non c’è più nessuno che ci racconti verità. Ci vuole un cambiamento in favore dell’onestà: ma dobbiamo essere noi i primi onesti, perché poi alle elezioni tendiamo a votare sempre chi ci assomiglia».
A 52 anni ha dichiarato di desiderare ancora un figlio. Mi consenta una domanda «alla Marzullo»: lei pensa che sia più egoista volerlo a tutti i costi un figlio, oppure non volerlo affatto?
«Nessuno dei due. Un figlio deve essere il coronamento di un grande amore, del quale sei sicuro e convinto. Inutile farlo se questo amore non c’è, peccato non farlo se questo amore c’è».

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